domenica 24 aprile 2011

Italiano intraducibile

Fino a ieri credevo che "Fenomenologia" fosse un ternine filosofico, usato prevalentemente da G.Hegel all'inizio dell'Ottocento e da E.Husserl circa un secolo dopo. Oggi apprendo che  fenomenologia significa pioggia: pochi minuti fa infatti ho sentito dire da un meteorologo: "Si prevedono piogge nel pomeriggio; la fenomenologia si accentuerà nel corso della notte..." (con ogni probabilità il buon uomo intendeva dire "fenomeni", ma bastava dire "si prevedono piogge che si accentueranno...).
 D'altro canto, la paura della normalità e della chiarezza è diffusa fra tutte le classi sociali e tutte le professioni. Il dirigente di ente pubblico non scrive: "favoriremo l'organizzzione di corsi di aggiornamento" ma "agiremo nell'ottica di supportare ogni iniziativa volta a consentire l'articolato e puntuale aggiornamento del personale". Il suo sottoposto non "informa" ma "trasmette un'informativa", non affronta "problemi" ma - chissà perchè - "problematiche", non parla di "argomenti" ma di "tematiche" e quando - dulcis in fundo - si mette d'accordo con l'idraulico affinchè questi venga a riparare un rubinetto che gocciola non gli chiede "a che ora pensa di venire?" ma "mi può indicare una tempistica?". Come ben sanno i poveri traduttori ciò rende certi testi italiani assolutamente intraducibili visto che molte altre lingue, e in particolare l'inglese, non conoscono neppure lontanamente simili contorcimenti e ampollosità.

lunedì 11 aprile 2011

Recensione: Gustavo Zagrebelsky - Sulla lingua del tempo presente - Einaudi editore, 2010, pp. 58, € 8,00

La mente, dicono i filosofi, ha la fondamentale funzione di costruire un modello della realtà nella quale ci muoviamo, allo scopo di comprenderla e controllarla. Si tratta di realizzare una sorta di personale carta geografica nella quale ogni elemento del mondo assume una posizione legata alla cultura, alle esperienze individuali, alle specifiche necessità. In quest'ambito, le parole diventano i punti di riferimento, al tempo stesso individuali e collettivi, di cui ci serviamo per orientarci e per progettare le nostre azioni. Più numerose e specifiche sono le parole, più dettagliata è la nostra carta geografica ideale, più articolata è la nostra visione del mondo. La degenerazione patologica di tutto ciò è l'uso di pochi termini ripetuti ossessivamente, l'incapacità di introdurre nel lessico concetti nuovi. In questo suo ultimo saggio, Gustavo Zagrebelsky passa scrupolosamente in rassegna una serie di luoghi comuni linguistici e denuncia il rischio che i cittadini vivano immersi, senza rendersene conto, in una rete di significati che, in modo più o meno subdolo, strutturano la loro esperienza, danno forma ai loro rapporti sociali e, in ultima analisi, regolano e limitano le loro possibilità di pensare criticamente e di comunicare. Noi non solo pensiamo in una lingua, ma la lingua "pensa con noi" o, addirittura, "per noi". Il linguaggio usato dalla politica e amplificato dai mezzi di comunicazione di massa ruota attorno a espressioni che ricorrono con sempre maggior frequenza, si fanno senso comune, sono spesso udite ma non capite a fondo. Cercare, se non di dipanare, almeno di mettere a fuoco i fili di questa matassa, è un modo, afferma Zagrebelsky, per resistere alla forza omologante del linguaggio. Si tratta di svelare collegamenti nascosti dietro parole che, per lo più, ci sono consuete e che, proprio per la loro quotidianità, insinuano nella nostra mente significati che esse, al tempo stesso, mascherano, trasmettono e amplificano. Trattando questi temi, sarebbe naturale supporre, osserva Zagrebelsky, di avere a che fare essenzialmente con la lingua di chi ci governa, con la linguadi chi domina la scena attraverso la comunicazione, ma spesso non è cosí. Si incontrano infatti espressioni che sono ormai comuni, che piacciono a destra come a sinistra, che perciò sono adottate da tutti. Questo fenomeno è casuale oppure è il segno di qualcosa che si può definire omologazione, difetto di visione politica propria, cedimento, vuotaggine degli uni che si riempie di contenuti presi a prestito da altri? O, ancora, è segno di appartenenza al medesimo sistema di simboli e valori, e quindi di potere: un sistema, in questo senso, totale, creatosi e chiusosi sulle nostre teste, che tende a inglobare tutte le possibilità di riflessione senza lasciare spazi di autonomia? La risposta non è ottimistica: secondo Zagrebelsky ci troviamo di fronte ad una vera e propria malattia degenerativa della vita pubblica, i cui sintomi egli descrive attraverso l'analisi di undici espressioni (come "Contratto", "Amore", "Prima Repubblica", "Tasche degli Italiani"...), che ormai da anni hanno invaso la carta stampata e i dibattiti televisivi. Esiste una cura per questa malattia? Esiste, ed era già stata indicata, sempre dal nostro autore, in un saggio del 2007 ("Imparare democrazia"). Si tratta di reimpadronirci della lingua, di rifiutare il manicheismo che nasce dalla opposizione meccanica fra "buoni" e "cattivi", di sfuggire alla banalità e allo squallore degli slogan. Si tratta di ricordare che: "Quando il nostro linguaggio si fosse rattrappito al punto di poter pronunciare solo si e no, saremo pronti per i plebisciti e quando conoscessimo solo più i si, saremmo nella condizione del gregge che può solo obbedire al padrone".